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Una promessa rubata

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Olga Kvirkveliya

Una promessa rubata

Capitolo I

Don Sancho

L’anno 885

1

Non sentiva né la gioia di essere sopravvissuto né il dolore di aver perso la battaglia. Aveva scelto lui un lavoro così: combattere per gli interessi degli altri. Però “scelto” non è proprio la definizione giusta: non aveva alternativa.

Suo padre, conte di livello medio, durante un ordinario bisticcio tra i signori più potenti si era schierato dalla parte sbagliata ed era finito al patibolo insieme con i figli più grandi. Tutta la sua proprietà fu confiscata e la moglie, con il figlio minore, rimase senza alcuna risorsa.

All’inizio la madre cercò rifugio e sostegno dai suoi parenti, ma questi temevano di provocare l’ira del vincitore ospitando la vedova con il bambino del “nemico della patria”. La povera donna aveva solo una via d’uscita: entrare in un monastero. Però il figlio era quasi adulto e il monastero femminile non era proprio un posto adatto a lui… anche se — il giovane ridacchiò a questo suo pensiero — la compagnia delle giovani educande gli sarebbe certamente piaciuta! Egli avrebbe potuto cercare rifugio dai frati, ma se c’era una cosa per la quale non sentiva alcuna vocazione, questa era proprio il monachesimo. Non gli restava che diventare militare, mercenario.

Cercò impiego in Francia, ma senza successo: il destino della sua famiglia era troppo noto e nessuno voleva avere a che fare con lui. Provò a chiamarsi con un falso nome… ma le voci riempiono la terra! Dopo aver attraversato tutto il paese, dalla Bretagna alla frontiera spagnola, decise di lasciare la patria, anche perché sua madre nel frattempo, sopraffatta dal dolore, era passata ad altra vita.

Una volta in Spagna decise subito, per non rischiare, di non chiamarsi con il suo vero nome: potevano essere arrivate anche qui le voci. Dio protegge coloro che si proteggono! Scelse di essere Sancho — dal suo vero nome Alessandro — figlio di un signore di qualche immaginaria contea (grazie a Dio, di quelle ce ne sono tante!). Senza pensare a lungo sul

cognome, prese quello di Guerriero — “alla spagnola” don Guevara. In seguito i cronisti della sua famiglia avrebbero cercato invano la sua patria sulla mappa; ma intanto quel nome gli permise di trovare impiego.

Don Guevara procede senza fretta, battendo ogni tanto la mano sul collo del cavallo stanco ed agitato, per rassicurarlo e abituarlo al suo odore (Lo aveva trovato — grazie a Dio!

— con le staffe ingarbugliate nei cespugli).

Osserva attentamente la boscaglia cercando di trovare i corpi dei militari che in quella macchia avevano incontrato la morte, senza farsi notare dai “colleghi” mercenari che urlano con brio e gioia sul campo. Sancho ritiene parte del suo lavoro ciò che adesso sta facendo. Sì, la battaglia è persa, il suo padrone è morto e anche il re è stato ucciso. Perciò è necessario cercare un nuovo padrone e sarebbe bene presentarsi con un aspetto non troppo sbrindellato. Il suo equipaggiamento si era rovinato durante le molte mischie anche perché non scappava dai nemici, mostrandosi sempre degno del suo nome-­‐soprannome. Così adesso è costretto a frugare tra i cespugli per prendere dai suoi compagni meno fortunati tutto ciò che vi è rimasto di buono. In verità questo è diritto dei vincitori ma a loro basterà quello che resta sul campo; qui, nella macchia, cercarono di salvarsi soltanto coloro che erano gravemente feriti.

Improvvisamente qualcosa brillò ai raggi del sole. Don Guevara si avvicinò e in un primo tempo fece una smorfia di disgusto: erano alcune donne anch’esse uccise nell’ardore guerresco.

“Probabilmente sono prostitute”, pensò, e stava già per andare avanti, ma poi ci ripensò: “Forse vi si può trovare qualche ninnolo con cui guadagnare la simpatia di graziose contadine”.

Una risoluzione opportuna, pensando che nel prossimo futuro si sarebbe potuto trovare al verde!

Si appiedò e cominciò a osservare la sua “scoperta”. I ninnoli — con sua grande sorpresa — erano di notevole valore e potevano interessare non solo giovani contadine!

Nel centro del gruppo si trovava il cadavere di una donna incinta. Era vestita in modo molto più ricco rispetto alle altre.

“Finalmente sono fortunato”, pensò Sancho, e le cominciò a togliere la collana e gli orecchini. Poi guardò gli anelli e si bloccò. Sul dito della donna c’era un anello. Proprio

quell’anello! Quell’anello che il re aveva regalato a sua moglie quando era venuto a sapere che era incinta. Proprio quell’anello che da quel giorno lei non aveva più tolto!

Don Guevara era sgomento.

Da una parte non è un bene per la regina, anche se morta, trovarsi tra sangue e fango; e se la trovassero i vincitori questi esporrebbero il suo corpo al pubblico per l’oltraggio e la profanazione. Dall’altra parte potrebbe vendere i suoi gioielli per un sacco di denaro, ma ogni compratore sarebbe curioso di sapere dove un povero cavaliere li ha presi, in particolar modo l’anello fatto su ordine del re dai migliori gioiellieri del regno.

Uno strano, quasi invisibile movimento lo sviò da quei pensieri. Il grembo della donna si muoveva!

Don Guevara con fervore fece il segno della croce: per un momento credette che la regina morta reagisse così ai suoi pensieri non molto pii, ma subito dopo capì che nel grembo si muoveva un bambino: è vivo, ma rischia di morire senza aria!

Il giovane cavaliere non sapeva che cosa fosse necessario fare, ma poi ricordò che una volta, da fanciullo, aveva visto come un pastore di suo padre aveva tirato fuori un agnello dal grembo di una pecora uccisa dal lupo. Certamente il figlio del re non è un agnello, ma non potrà andargli peggio di adesso!

Sancho prese dal gambale un coltello, si inginocchiò e cominciò a tagliare con prudenza la pancia della donna cercando di trattenere il tremore delle mani, perché ogni movimento sbagliato avrebbe potuto costare la vita del neonato. Tutto andò per il meglio: non per caso lui era noto per la sua capacità di usare il coltello. Adesso restava solo da tagliare il cordone ombelicale e dare una sculacciata al bambino: era un maschietto, rosso e grosso, che si muoveva e scalciava con tutte le sue forze.

Con il cordone il cavaliere non aveva problemi, ma dare la sculacciata… Il bimbo avrebbe gridato e i nemici sarebbero accorsi! Questo grido poteva costare la vita a entrambi. Don Guevara strinse a sé il bimbo, salì sul cavallo e solo allora gli diede la sculacciata. Il bimbo cominciò a piangere, ma il cavallo correva ormai al galoppo tra i cespugli. Anche se quelli sul campo avessero sentito qualcosa, non vi avrebbero prestato attenzione poiché discutevano animatemente sul bottino…

2

Allontanandosi, e dopo essersi assicurato che non ci fossero inseguitori, don Guevara lasciò le briglie e il cavallo andò al passo.

Adesso è tempo di pensare cosa fare. Certo, il suo gesto è stato nobile, degno di un cavaliere, ma troppo sconsiderato! Dove mettere il neonato? L’unica soluzione sarebbe lasciarlo presso un monastero, ma questo non è un semplice neonato, è il figlio del re, l’erede legittimo al trono!

Il passo ritmato del cavallo aiutava a pensare chiaro. Sì, bisogna lasciare il neonato in un monastero; non abbandonarlo, ma consegnarlo nelle mani dell’abate raccontandogli tutta l’incredibile storia. Ma questi ci avrebbe creduto? Mah!

Don Guevara ha, però, una prova: il famoso anello. Per fortuna l’aveva messo in tasca prima di notare il movimento del bambino nel grembo della madre. Certo, è un peccato rinunciare all’anello; sarebbe possibile venderlo bene, ma non avrebbe altre prove… Bisogna, però, scegliere il monastero con saggezza. L’abate deve essere fedele al re ucciso, altrimenti potrebbe consegnare il piccolo nelle mani dell’usurpatore, vanificando così tutti gli sforzi per salvare la sua vita. Ma come sapere da che parte sta l’abate?..

Il bimbo, che già da tempo frignava, scoppia in un grido sdegnato. Don Guevara rimbocca l’orlo dello straccio nel quale lo aveva avvolto, prima di deporlo tra il petto e la camicia. Il bambino subito afferra il suo dito, lo strascica alla bocca e comincia a succhiarlo con entusiasmo. Il giovane capisce che ha fame, ma dove trovargli latte? Da una mucca! -­‐ risponde a se stesso sorridendo. Ma dove trovare la mucca? Sul pascolo!

Riesce a risolvere tutti e due i problemi contemporaneamente: trova sia la mucca sia il monastero.

Una volta messo il neonato sotto le mammelle della mucca, don Guevara comincia a pensare come capire da che parte sta l’abate. Il monastero è maschile: è chiaro perché le mura sono fortificate e il portone ben chiuso. Quest’ultimo è un buon segno: se l’abate sostenesse l’usurpatore, il portone sarebbe spalancato in attesa dei vincitori che porterebbero le offerte di ringraziamento per la protezione celeste. Siccome il portone è chiuso significa che il monastero ha motivo di aver paura. Ma non si può rischiare, bisogna osservare ancora.

Il bimbo si è rimpinzato e adesso sbuffa contento. Improvvisamente il cavaliere ricorda con terrore che i bambini mangiano molto spesso, quasi senza interruzione! Cosa fare? Lui non può correre dalla mucca ogni ora! E poi, per la notte la mandria sarà portata nella stalla. Toccherà rubare la “nutrice”. Per dire la verità, anche prima Sancho era costretto a “impossessarsi” del bestiame che passava o correva oltre — di una gallina o addirittura di una pecora, ma di una mucca!!! Non si può fare altro. Solo che non sarà possibile viaggiare sulla strada apertamente: un uomo a cavallo, con un neonato sulla braccia, che porta dietro di sé una mucca… potrebbe richiamare una folla di curiosi.

Costruisce un rifugio con i cespugli tagliati presso un ruscello sotto le mura del monastero; da lì sarà possibile osservare il portone senza essere visto. Ora ha bisogno di riposare un po’, la giornata è stata faticosa: la battaglia, la ricerca di un cavallo e di un equipaggiamento, poi anche l’avventura con il bimbo… Si è appena sdraiato sull’erba quando il bimbo ricomincia a piagnucolare e tutto si ripete come in un circolo chiuso: nutrire, lavare, portare il cavallo e la mucca in altro posto, combinare per sé una sbobba dal “pascolame”, mangiare, di nuovo nutrire il bimbo… “Che bello non essere donna!”, pensò, “E tutto questo senza fare bucato e pulizia!”

Intorno al monastero non succede nulla per tutto il giorno: nessuno esce, nessuno entra. Come se tutti fossero morti! A crepuscolo avanzato don Guevara percepisce qualche movimento. Vaghe ombre, una o due alla volta, penetrano lungo le mura verso il portone, bussano — quasi grattano; il portone si apre inghiottendole senza traccia. Alcune ombre sembrano zoppicare, altre strascicano a malapena i piedi. “I nostri”, capisce Sancho.

Lega il cavallo e la mucca, stringe a sé il bimbo e si avvicina al portone. Quando questo si apre e lui entra, è circondato da uomini armati che, vedendo il neonato, subito si rilassano. Guevara chiede di essere portato dall’abate.

3

Don Guevara racconta tutto all’abate. Questi lo ascolta in silenzio; la sua faccia non mostra né sorpresa né diffidenza. Quando il cavaliere finisce il suo discorso, l’abate lo incalza:

— ­‐ E tu ti aspetti che io ti creda?

— ­‐ Che motivo avrei di mentire? Non sono una fanciulla che ha peccato sul fienile!

— ­‐ Questo è giusto, però i tempi sono incerti; chissà quali ragioni potresti avere. Dammi qualche prova!

Don Guevara sospira con rammarico, infila la mano in tasca, tira fuori l’anello e lo consegna all’abate. Questi osserva attentamente il gioiello, poi si rivolge di nuovo al giovane.

— ­‐ Sì, è quello. Non ci si può sbagliare: i due profili, del re e della regina, e le iniziali.

Però… tu sei comunque un ladro!

— ­‐ Non tocchiamo questo argomento adesso! Non sono venuto per la confessione!

— ­‐ Io non parlo dell’anello. Hai rubato il neonato al suo destino, si può dire a Dio!

— ­‐ E non mi dispiace!

— ­‐ Cosa vuoi da me?

— ­‐ Prendete il bambino! Dove andrei con lui? Adesso mi tocca cercare un nuovo padrone.

E poi non va bene portare il figlio del re tra il petto e la camicia.

— ­‐ È facile dire “prendetelo”… Se qui diamo asilo, sicuramente non lo diamo ai bambini. Credo che tu l’abbia capito! E poi, quale figlio del re è lui adesso?! Dagli un nome e portalo dalle suore, ti darò una lettera per la badessa. Lo cresceranno come un bambino qualsiasi.

— ­‐ E questo sarebbe un bambino qualsiasi?! E no! Lui è l’unico e legittimo erede al trono!

Ho giurato fedeltà a suo padre!

Al clamore delle voci il bimbo si sveglia e comincia a piagnucolare.

— ­‐ Forse ha fame di nuovo. Se è così, noi andiamo: ho legato nella macchia una mucca; darò da mangiare al piccolo.

— ­‐ Aspetta, troveremo noi del latte! Alloggiate nella cella. Cercherò di sapere qualcosa di più, poi deciderò.

Dopo tre giorni l’abate chiamò il cavaliere. Don Guevara entrò e chiuse la porta senza far rumore per non svegliare il bambino che dormiva beatamente tra le sue braccia.

— ­‐ Pare che tu non abbia mentito. Dicono che hanno trovato la regina con la pancia tagliata e che il figliolo è sparito. Adesso lo stanno cercando. Se lo troveranno saranno guai.

Tacciono. Poi l’abate rompe il silenzio:

— ­‐ Certamente ci sono uomini pronti a dare la vita per questo bambino, ma sono pochi soppravvissuti. Alcuni sono feriti, altri mutilati… Ecco, resta qui con noi, poi vedremo.

— ­‐ Io devo restare con lui?! Devo cercare un nuovo padrone, ho solo un cavallo, che per giunta non è mio!

— ­‐ Non preocupparti per questo, vi sosterremo con l’aiuto di Dio.

— ­‐ Padre, ma che balia posso essere io?! Oltretutto non ho vocazione alcuna per il monachesimo.

— ­‐ Sei balia come ognuno di noi, siamo in un monastero maschile, come avrai certamente notato! Alla vita monastica non ti costringerò. Sarai un collaboratore, potrai uscire liberatamente e pregare quando la tua anima lo vorrà. Piuttosto, che lavoro potrei farti fare? Forse in biblioteca; credo tu sia alfabeta!

— ­‐ Sì. Nella mia vita passata ho avuto insegnanti e maestri.

— ­‐ Vedi che fortuna! Chi meglio di te può educare il figlio del re? I nostri frati sono persone semplici, non solo non sanno leggere, ma addirittura contano con le dita fino a cinque e poi sbagliano. Sono capaci solo di curare i feriti e difendere il monastero. Visto che abbiamo un ricco archivio dei tempi passati in pace, sarebbe bene metterlo in ordine.

— ­‐ Ecco come andrà a finire… Sono un buon militare ma, a dire il vero, non è conveniente per un uomo vivere come un lupo solitario e rischiare la vita per gli interessi degli altri. Noi mercenari viviamo così: talvolta serviamo lo stesso padrone, facciamo quasi amicizia tra di noi, ma poi può succedere di combatterci perché i nostri nuovi padroni pretendono lo stesso villaggio. Di conseguenza cerchiamo di non coltivare veri rapporti di amicizia… Ma io sognavo di avere moglie e figli, una casa…

— ­‐ Avrai tempo. Il bambino crescerà, e sarai libero. E così fu.

L’anno 895

Sono passati dieci lunghi anni. Il figlio del re è diventato un ragazzo molto sveglio, dallo sguardo sereno. Anche don Guevara è più maturo. Ormai si è abituato alla nuova condizione: ordina l’archivio con entusiasmo; insegna a leggere e scrivere al “figlio adottivo”. Ogni tanto va alla birreria del villaggio e mangia con gli occhi le belle ragazze, ma non pensa affatto a qualche legame serio: nel monastero lo aspetta il bambino, al quale si è affezionato moltissimo, mettendo in quell’amore tutta la nostalgia per la patria e la famiglia, tutto il dolore per le perdite subite, tutta la tenerezza accumulata nella sua giovane anima durante gli anni di vita solitaria.

Un giorno l’abate lo convoca e chiude bene la porta dietro di lui:

— ­‐ Il tempo è arrivato. È ora che il “nostro” figlio del re si prepari a regnare. I figli dei sostenitori di suo padre — uccisi in battaglia — sono cresciuti. Essi sono pronti a lottare contro l’usurpatore e il ragazzo diventerà la loro bandiera. Adesso ci sono questi che lo porteranno al trono. Domani arriveranno alcuni di loro, tu racconterai la tua storia e farai conoscere l’erede del trono. A proposito, gli hai detto chi è lui?

— ­‐ Sì. Ho creduto che fosse giusto.

— ­‐ Va benissimo. Preparalo.

Il giorno seguente, domenica, insolitamente molti giovani si recano a messa. Arrivavano uno o due alla volta, quasi tutti a cavallo, solo alcuni a piedi. Entrati nel chiostro, si infilano, oltre la chiesa, nella biblioteca, dove li aspettano don Guevara e il figlio del re. Sancho è nervoso: il destino del suo pupillo sta per definirsi. L’erede al trono è serio e riservato come mai prima.

I convenuti li osservano alla chetichella, parlottando a bassa voce come in attesa di qualcuno. Finalmente si spalanca la porta ed entra l’abate con alcuni uomini, decisamente più anziani di quelli arrivati prima. Uno di loro, con una orribile cicatrice sulla faccia, osserva attentamente il ragazzo e sospirando esordisce:

— ­‐ Sì. È lui. È una copia di suo padre, solo gli occhi sono della madre.

Si avvicina al figlio del re e si inchina. Il ragazzo dapprima si discosta un po’, poi gli mette la mano sulla spalla.

Gli altri non seguono l’uomo con la cicatrice, anche se la diffidenza poco a poco si dilegua dalle loro facce.

— ­‐ Sentiremo prima la sua storia -­‐ propone l’abate.

Don Guevara racconta come aveva trovato la regina morta e, omettendo alcuni dettagli, come dal grembo di lei aveva estratto il neonato.

I veterani facevano col capo ampi cenni di comprensione. Poi l’abate tira fuori dalla tasca la scatolina con l’anello e la porge al più anziano dei presenti, un uomo ingobbito e dai capelli grigi. Quest’ultimo la osserva e la passa ad un altro; egli stesso, zoppicando vistosamente, si avvicina poi al figlio del re e si inchina. Il ragazzo mette anche a lui la mano sulla spalla.

Gli astanti, giovani e veterani con le cicatrici, uno dopo l’altro si avvicinano al ragazzo.

Infine riprendono i loro posti.

— ­‐ Allora, -­‐ dice il primo veterano -­‐ noi cominceremo a raccogliere gli uomini, intanto il ragazzo resterà ancora da voi. Bisogna prepararlo a regnare. Da quello che capisco, sa già leggere, scrivere e far di conto. Al monastero ha certamente studiato canto, ma servono anche storia, geografia, letteratura, danza e -­‐ più importante -­‐ l’etichetta di corte.

— ­‐ I libri di storia e geografia sono nella nostra biblioteca e abbiamo già cominciato a studiare danza -­‐ replica don Guevara. -­‐

— ­‐ In letteratura posso essere d’aiuto io, -­‐ interviene l’abate -­‐ ho una mia piccola raccolta di manoscritti.

Il vecchio soghignò:

— ­‐ Non essere troppo modesto, padre, sei un noto esperto in questo campo.

— ­‐ Io, però, non sono molto bravo nell’etichetta cortigiana, e nemmeno i frati -­‐ aggiunge Sancho.

— ­‐ Di questo mi occuperò io stesso. Mi prenderete come frate, padre? Sono vecchio e solitario, mia moglie è morta, i figli maggiori sono stati uccisi, quelli minori sono scappati. È tempo di pensare all’anima.

— ­‐ Lo ritengo un onore! -­‐

Tutti escono dalla biblioteca in assoluto silenzio. L’anno 897

Il figlio del re studiava con zelo. Sembrava che improvvisamente, sotto la pressione della futura responsabilità, fosse diventato adulto. Don Guevara era assolutamente meravigliato per l’acuta intelligenza del suo “trovatello”, per l’ampiezza di vedute, inconsueta alla sua età, la forza di volontà e, si potrebbe dire, il senso dello stato. Persino la sua postura si era modificata.

Un giorno, mentre studiavano la geografia chini su una mappa, improvvisamente il ragazzo alzò lo sguardo su don Guevara:

— ­‐ Dove si trova la tua contea? Non ho trovato nessun posto con il nome “Guevara”.

— ­‐ In verità non ho una contea -­‐ rispose il cavaliere e raccontò all’allievo la sua storia, confessando, a tal proposito, che aveva inventato lui il cognome.

Il figlio del re si fermò un attimo a pensare, poi riprese:

— ­‐ Tu sei un ladro, vero? Così dice l’abate. Mi hai rubato al destino.

— ­‐ Mah! Si potrebbe dire anche così.

— ­‐ Ladro… Però non sei un ladro qualsiasi, non hai rubato una cosa comune, ma l’erede al trono! Dunque non sei ladro, ma ladrone!

Il ragazzo sorrise con furbizia:

— ­‐ E allora? Cosa hai inventato, maestà?

Anche don Guevara sorrideva.

— ­‐ Guarda che cosa ho trovato: una zona che si chiama Latron! Quando salirò sul trono la donerò a te e diventerai il conte di Latron! Questo sarà il tuo vero cognome!

— ­‐ Mi sono già abituato ad essere Guevara. E spero di continuare ad essere un buon guerriero. Presto te lo dimostrerò!

— ­‐ Allora sarai Guevara Ladron! Ma promettimi che sarai soltanto mio guerriero!

— ­‐ Promesso, maestà!

E così fu.

Capitolo II

Don Pedro

L’anno 1099

1

Egli ancora una volta non ha reagito all’appellativo di “conte di Latron”! Non riesce assolutamente ad abituarsi. Né il padre aveva dato il permesso di usare il nome di famiglia “Guevara”.

Il capostipite un giorno aveva promesso al figlio del re che non sarebbe mai stato un militare al servizio di qualcuno che non fosse lo stesso re. Proprio perché “Guevara” proviene da “guerriero”, “combattente”, nessun Guevara deve combattere per qualcuno che non sia il monarca spagnolo.

Invece adesso lui non stava combattendo propriamente per conto del re; tanto più che il re di Spagna non partecipava affatto alla spedizione. È questo il motivo per cui ora decide di chiamarsi temporaneamente conte Pedro Latron, che, grazie a Dio, è il secondo nome di famiglia.

In realtà lui non dovrebbe partecipare a questa campagna. La Spagna ha già abbastanza nemici e le forze per affrontare i Mori chiaramente non bastano. Ma il padre aveva un motivo particolare per mandarlo a liberare Gerusalemme…

Pedro siede sull’erba appoggiandosi all’albero con la schiena e osserva cupamente come l’acqua trasparente del piccolo fiume corre verso il mare. Non è contento né della una giornata calda e solare, né del pranzo gustoso e abbondante nella taverna, né dell’improvvisa possibilità di rilassarsi tranquillamente. Da quasi un anno non è contento di niente.

Sì, sono già passati trecentoquarantotto giorni, ma il giovane non può dimenticare come i Mori hanno buttato fuori della porta della città di Calaat-­‐Rava il corpo deturpato della sua amata Miriam. L’aveva incontrata per la prima volta mentre passava con la pattuglia vicino al ruscello sotto le mura di Calaat-­‐Rava. Era venuta a prendere l’acqua, e il conte Ladron aveva ammirato la sua fine ed elastica figura. Miriam notò il suo sguardo appassionato ma non si spaventò, non scappò via; si limitò a sorridere, abbassando gli occhi.

Da quel momento il giovane aveva sempre cercato di far parte della pattuglia presso il ruscello. E a lui sembrava che anche la ragazza cercasse di venire più spesso a prendere l’acqua. Passo dopo passo fecero conoscenza: all’inizio, incontrandosi, facevano un semplice cenno con il capo, poi si salutavano, più tardi cominciarono a scambiarsi qualche parola, non significativa ad orecchi estranei ma dolce carezza per gli innamorati.

Purtroppo qualcuno venne a conoscenza della simpatia “delittuosa” di Miriam per un

“infedele” e la giovane fu lapidata. Il suo corpo deturpato giacque a terra, al solleone, e le grandi mosche nere vi si riunivano per il sanguinolento banchetto…

Il padre ed i fratelli di lei cercarono di trattenere il giovane, ma lui salì in sella, si avvicinò alla ragazza, la sollevò in braccio e tornò indietro di corsa. Alle sue spalle fischiavano le frecce, ma lui, stordito dal dolore dell’anima, non si accorgeva di nulla.

Pedro portò il corpo nella chiesa del cimitero, ma il sacerdote rifiutò di seppellirlo nella terra consacrata: Miriam non era cristiana. Il giovane, senza dire una parola, si voltò e uscì dalla chiesa. Portò sulle braccia la ragazza al ruscello e la seppellì vicino al posto del loro primo incontro.

Da allora il suo carattere mutò notevolmente. Anche se non era mai stato un vigliacco, adesso era diventato semplicemente sconsiderato. Sembrava che cercasse la morte. In effetti era proprio così.

Il padre, preoccupato, pregò il prete di parlare con il figlio.

— ­‐ Sì, non ho paura della morte, anzi la voglio! Perché? Perché solo così incontrerò la mia Miriam. -­‐ gli disse il giovane conte Guevara Latron.

— ­‐ Mi dispiace, -­‐ il prete scosse la testa -­‐ quest’incontro non potrà aver luogo. Tu sai che nel regno celeste possono entrare solo i cristiani e Miriam era musulmana.

— ­‐ Ma questo non è giusto! Non è colpa sua se è stata nata in una famiglia musulmana! Lei non sapeva neanche dell’esistenza di Cristo, come avrebbe potuto essere battezzata?

Il prete scosse la testa con commozione, alzò le spalle e stese la mano per metterla sulla testa del giovane, ma questi si scansò e uscì frettolosamente dalla chiesa.

Da quel giorno il conte Latron è sempre cupo. Non trova consolazione e speranza né sulla terra né in cielo, né nella vita, né nella morte. Fu così che il padre, convinto che chiodo schiaccia chiodo, decise — quale ultima speranza — di fargli intraprendere un viaggio lungo e difficile verso paesi sconosciuti, incontro a nuovi pericoli, nuovi amici e forse anche un nuovo amore.

Ecco perché Pedro adesso si trova sulla riva del fiume presso una città dallo strano nome “Vibinum”. Il loro esercito deve recarsi al santuario dell’Angelo, sul Gargano, e da lì partire per la Terra Santa.

Si muovono solo al tramonto. Dopo un breve tragitto il conte Latron si volta indietro. Sullo sfondo del cielo color porpora, sulla cima della montagna, biancheggia la città, somigliante alla sua Calaat-­‐Rava. Si sente stringere il cuore: bisogna ricordare questo nome: Vibinum. Tornerò ancora, -­‐ promette a se stesso -­‐ ancora libererò Calaat-­‐Rava. Forse non io ma i miei figli o i figli di miei figli. Chissà! Ma per fare questo bisognerà almeno accasarsi.

Quest’idea inaspettata lo costringe a sorridere, per la prima volta dopo quasi un anno.

2

Durante la spedizione il conte non ha davvero tempo per cupi pensieri. Appare subito chiaro che egli ha l’innato talento del condottiero: tutti i Guevara erano eccellenti militari. Per questo è chiamato alla pianificazione delle operazioni militari. Certamente un ruolo importante aveva avuto anche il suo glorioso nome, la gloriosa origine.

Ma un giorno il passato lo accappia e gli assesta un duro colpo.

I crociati già da tempo tengono in assedio una cittadina dove una settimana prima erano esaurite acqua e cibo. Ogni giorno fuori dalle porte della città si gettano i corpi dei morti per fame e per sete: di solito bambini, vecchi e donne, perché le ultime briciole di cibo e la rugiada raccolta all’alba sono riservati ai militari. I crociati osservano attentamente se qualche corpo si muove: tra i cadaveri può nascondersi una spia.

Giusto a mezzogiorno la porta si apre e altri corpi vengono gettati fuori. Improvvisamente tra loro sguscia una giovane donna, che comincia a correre stringendo al petto un bambino.

— ­‐ Che cosa è? — si volta Latron al vecchio interprete.

Questi alza le spalle:

— ­‐ Cerca di salvare il suo bimbo. Ma chi glielo permetterà? Lei potrebbe descrivervi la situazione nella città.

Infatti, dopo qualche momento di sbigottimento, in direzione della donna volano prima maledizioni poi anche pietre.

— ­‐ Guarda, risparmiano le frecce, evidentemente anch’esse stanno per finire, -­‐ dice il vecchio a Latron.

Ma questi già non sente più nulla. La figura femminile che corre, le pietre… Come la sua Miriam! Monta a cavallo e corre al galoppo incontro alla donna. In quel momento volano le frecce — poche e precise. Une delle prime si conficca nella schiena della donna. Lei cade e resta immobile.

Quando il giovane si avvicina la donna è già morta. Il neonato succhia avidamente il suo seno, dal quale già gocciola sangue, non latte. Latron prende il suo corpicino quasi senza peso e, risalito a cavallo, torna indietro. Nella sua mente balena l’immagine del suo antenato che porta via dai nemici un altro neonato, un figlio di re. Al contrario, questo bimbo che reca con sé non è affatto un figlio di re…

— ­‐ Non sopravvivrà, è troppo debole, non riusciremo a salvarlo. E poi non sopporterebbe la vita dell’esercito. E dove troveremo il latte per lui? — dice afflitta la superiora delle suore che curano i feriti.

Il giovane mastica della mollica, l’avvolge nello straccio più pulito che ha trovato e ne mette un po’ nella bocca del bimbo; ma questi è troppo debole e piccolo per un simile cibo… Fino alla mattina Pedro siede dondolando il bambino, che all’alba cessa di vivere…

Il conte piange senza emettere alcun suono, disperatamente. Non aveva pianto così neppure sul corpo di Miriam. Neanche il bambino entrerà nel regno celeste. E neanche sua madre…

Accanto al giovane si mette a sedere un frate. È come se avesse letto i suoi pensieri:

— ­‐ Non disperarti così. Lassù in cielo, tra l’inferno e il purgatorio, c’è una valle verde con un castello al quale si accede attraverso sette porte. Nel castello vivono le anime dei bambini non battezzati e delle persone che durante la vita non hanno incontrato Dio ma hanno vissuto, anche senza saperlo, secondo i suoi comandamenti. Essi non

soffrono, non patiscono, sono quasi felici. Dico “quasi”, perché non possono vedere Dio. Il fuoco dell’inferno non li brucia, la solitudine non li gela. Il fiume mormora, i fiori sbocciano, le farfalle volano. Hanno tutto tranne la possibilità di vedere Dio e questo crea in loro un’ansia eterna… Ma, anche se non vedono Dio nessuno può confermare che non vedano Sua madre. La Madonna porta nella valle verde il sollievo e la calma… Come si traduce in spagnolo “valle verde”? Val verde? Prega alla Madonna di Valverde…

Il discorso del monaco è ritmato e quasi ninnante. Le lacrime del conte pian piano si asciugano, il dolore ardente dell’anima si placa. “La Madonna di Valverde…», ripete dentro di sé.

— ­‐ Io stesso o i miei figli, o i figli dei miei figli libereremo dai Mori Calaat-­‐Rava e costruiremo presso il ruscello il santuario della Madonna bruna con gli occhi neri, la Madonna di Valverde, per la mia Miriam, per questa donna, per il suo piccolissimo bimbo…

3

I crociati sono accompagnati da un gruppo di suore che solitamente curano i malati e i feriti, ma cucinano anche, riparano i vestiti e aiutano come possono i militari a superare la nostalgia.

Pedro fa amicizia con alcune di loro, in particolar modo con suor Teresa, originaria del Sud Italia, la cui comunità è venuta con Boemondo di Taranto, figlio di Roberto Guiscardo. Di solito vivace e gioiosa Teresa ultimamente è molto cambiata. Un giorno decide di rivelare a Pedro il suo tormento:

— ­‐ Mi sembra di essermi sbagliata nella vocazione. Non per ciò che riguarda il monachesimo in generale, ma nel servizio ai crociati. Non sopporto più di veder morire anziani e bambini, colpevoli soltanto di non essere cristiani. Fascio le ferite e curo i nostri militari e la mattina successiva di nuovo essi vanno all’assalto e di nuovo muoiono degli innocenti…

— ­‐ Gli innocenti muoiono non solo per colpa nostra! -­‐ replica Don Pedro, poi racconta alla suora la storia di Miriam.

Teresa ammutolisce cercando, senza successo, parole di consolazione. È Il conte stesso a rompere il silenzio:

— ­‐ Credo che questi pensieri tormentino non solo noi. Tutti vedono che ci sono persone per bene anche tra i musulmani.

Poi si volge e indica Abdullah: — Per esempio, lui!

Spesso i crociati incontrano i profughi, donne, bambini e anziani, che, con l’avvicinarsi delle truppe, cercano di lasciare città sperando di trovare rifugio dalla guerra. I crociati li fanno passare permettendo loro di raggiungere parenti o amici.

Con un gruppo di profughi andava anche Abdullah, un vecchio con i capelli grigi. Si era storto un piede ed era costretto a restare indietro rispetto agli altri. Le suore lo hanno fasciato e fatto riparare all’ombra. Per alcuni giorni non è stato bene, poi si è abituato al campo ed è rimasto con i crociati, servendoli come interprete e informandoli sugli usi e costumi locali.

— ­‐ Dove devo andare? Non ho nessuno, non ho paura di niente. La morte mi troverà ovunque quando arriverà il tempo! -­‐ aveva confidato.

Abdullah è matematico e astronomo ma anche un uomo di vasta cultura. È innamorato della sua professione e sa raccontarla in modo così affascinante che di sera attorno al falò i crociati lo ascoltano a bocca aperta. Ad esempio:

— ­‐ Quanto fa uno più uno? — egli domanda.

— ­‐ Due! — rispondono tutti insieme.

— ­‐ E no! Un gatto più un topo faranno un gatto, e un coniglio più una coniglia faranno ventiquattro cuccioli!

— ­‐ Mah! È vero!

Gli ascoltatori sono spiazzati.

— ­‐ Oppure: un cavaliere più un fante saranno due uomini e un cavallo -­‐ li punzecchia il vecchio.

— ­‐ Aspetta, qualcosa non va! Ci hanno insegnato: uno più uno fa due, due più due fanno quattro. Guarda: una moneta e un’altra moneta sono due monete, una mano più un’altra sono due mani.

— ­‐ E una mano più un piede? — sorride con furbizia Abdullah.

— ­‐ Anche due!

— ­‐ Ma due di che cosa? Di mani o di piedi? Adesso, cari miei, dobbiamo capire che cos’è l’astratto e, quindi, la generalizzazione…

Quando il falò si spegne, tutti sono sdraiati sull’erba, guardano il cielo e il vecchio gli racconta delle stelle.

4

Queste serate piacevano a tutti, ma una sfortunata notte la scintilla del falò dà fuoco alla tenda dove dormono le suore. In un attimo la fiamma spicca il volo. I crociati corrono a spegnere il fuoco coprendolo con la sabbia. Abdullah corre tra le fiamme nella tenda e comincia ad aiutare le donne ad uscire: la prima, la seconda, la terza… poi si sente soffocare e cade. Quando riescono tirarlo fuori è ormai troppo tardi. C’è ancora qualche barlume di vita, ma è chiaro che non è possibile salvarlo.

— ­‐ Battézzati, ti prego, battézzati! Ho tanta voglia di incontrarti nel regno celeste! — lo prega insistentemente Teresa.

— ­‐ Non addolorarti, ragazza, -­‐ disse con un filo di voce Abdullah -­‐ se il vostro Dio è così saggio e misericordioso come credete, qualcosa inventerà per me…

Teresa che è stata una delle prime a scappare dalla tenda per aiutare spegnere l’incendio, siede vicino al corpo del vecchio, impietrita. “Come me vicino al corpo di Miriam”, pensa Latron. Si siede accanto a Teresa e l’abbraccia:

— ­‐ Sai, Abdullah ha nuovamente ragione… Dio ha pensato già a tutto. Tra l’inferno e il purgatorio c’è la Valle verde…

Pedro ripete le parole del monaco nello stesso modo ritmico e tranquillizzante e sente che Teresa si ravviva, poi comincia a singhiozzare, infine si acquieta:

— ­‐ E tu, quando finirà questa campagna, fonderai una comunità e pregherete la Madonna di Valverde, bruna con gli occhi neri, per tutti gli uomini non battezzati ma giusti, per Miriam, per Abdullah. Sono sicuro che ti appoggeranno in molti. Guarda, anche i templari hanno già scelto come loro protettrice la Madonna nera, e non a caso. In verità essi citano “Il Cantico dei cantici”, ma penso che il motivo sia un altro…

E così fu. Lo stesso anno ad Acri fu fondata la prima comunità femminile della Madonna di Valverde, nel 1229 le suore di quest’ordine giunsero nei dintorni di Matera e più tardi presso Vibinum.

Il conte Pedro Ladron Guevara torna in Spagna, trova moglie e fa crescere i figli, per avere qualcuno a cui affidare le sue promesse.

Capitolo III

Don Pedro junior

L’anno 1157

1

Fin dal mattino era agitato, anche se cercava di non farlo vedere. Altro che! Per la prima volta, dopo dieci anni passati lontano dalla patria, stava tornando in Spagna.

Nella sua agitazione c’era tutto: il presentimento del viaggio lungo e difficile; la gioia dell’imminente incontro con la madre e la nonna; l’orgoglio della partecipazione all’importante impresa; ma anche una certa preoccupazione, se non proprio paura.

Procedevano in grande reparto, composto da drappelli di cavalieri giunti dai diversi monasteri. Era stato il suo grande nonno e omonimo, Pedro Ladron de Guevara, ad aver creato e organizzato questa struttura.

Tornando dalla crociata, il nonno Pedro si era preoccupato di trovare una moglie degna di essere madre dei suoi futuri figli. Non si faceva illusioni sulla possibilità di liberare subito Calaat-­‐Rava, così cara al suo cuore: il re non aveva le forze per questa impresa militare. Ma il motivo principale era che ai giovani militari non era concesso il tempo di acquisire l’esperienza necessaria né quello di sposarsi e fare figli.

I Mori, infatti, controllavano attentamente ogni gruppo di giovani e colpivano prima che diventassero adulti. E così nella testa di Pedro era maturata un’idea: bisognava mandare i figli minori nei paesi vicini e là farli diventare dei veri militari. In questo caso i Mori non avrebbero potuto raggiungerli e sarebbe stato possibile preparare, a loro insaputa, un vero esercito.

I monasteri della Francia e dell’Italia sarebbero dovuti diventare centri per la preparazione di quei giovani. Ma i signori locali non avevano alcun interesse a riempire i monasteri di cavalieri armati; il nonno doveva usare tutta la sua capacità diplomatica e strategica per convincerli.

Il monastero di Troia (dove avrebbe in seguito studiato Pedro nipote) era stato dato agli Spagnoli nel 1124, dopo che il drappello di giovani cavalieri sotto la guida di Sancho, figlio del primo Pedro e padre del secondo, aveva aiutato i Normanni, e in particolar modo il conte di Loretello e il re di Sicilia Ruggero II, a rafforzare il loro potere in Puglia. Da allora momento il monastero si chiamò San Nicola Calatrava.

In ogni modo non era possibile tenere molti giovani in un solo posto perciò quando arrivavano nuovi gruppi di ragazzi si costruivano o si prendevano in gestione nuovi monasteri.

Con il tempo il numero dei militari preparati era cresciuto. Nel 1147 un drappello di giovani, sotto la guida dell’abate del monastero di Orsara, era partito per la Spagna. Ufficialmente si disse che l’abate spagnolo aveva organizzato il lungo viaggio per ricevere notizie e creare un rapporto d’amicizia con il re, anche se la loro amicizia durava già da molti anni — erano nati e cresciuti nella stessa città. Il motivo per cui aveva preso con sè tanti

“frati” era dovuto alla pericolosità del viaggio. Ma tutti i cavalieri sapevano che li aspettava una grande battaglia: la liberazione di Calaat-­‐Rava.

E la battagia ci fu. Calaat-­‐Rava fu liberata e l’abate ricevette dal re la villa Bamba per il coraggio dei suoi “frati”.

Tra i giovani c’era anche il fratello maggiore di Pedro junior, Vela, a cui fu affidata Bamba. Lì -­‐ presso Bamba, non Calaat-­‐Rava -­‐ fondò subito il santuario della Madonna di Valverde. Così la promessa del nonno non era stata realizzata pienamente. E adesso — morti in battaglia sia Pedro che suo figlio Sancho — Vela, il nipote maggiore di Pedro, doveva farlo.

2

Tutto questo il giovane Pedro aveva saputo dai racconti di Vela, della nonna e della madre, quando aveva solo dieci anni, ascoltando con il fiato sospeso.

Il nonno si era lanciato all’attacco per primo. Nella sua figura — col mantello svolazzante al vento, sul cavallo che volava — c’era qualcosa di spaventoso e mistico insieme.

Sancho aveva cercato di raggiungere il padre, ma vi era riuscito solo quando il cavallo di Pedro era caduto sotto una pioiggia di frecce. Questo non aveva fermato il cavaliere. Il figlio gli aveva offerto il suo cavallo, ma Pedro lo aveva scansato senza dire una parola ed era corso avanti.

Era penetrato nella città come un coltello nel burro. Sembrava che la morte non dovesse coglierlo, ma all’improvviso un colpo lo raggiunse, poi un altro…

Sancho voleva aiutare il padre ferito, ma questi di nuovo lo scansò e di nuovo entrò in battaglia. Le frecce volavano dai tetti delle case. Sancho, per proteggere il padre da una di esse, fu colpito a morte. Neanche questo fermò Pedro. Ma subito dopo, anch’egli colpito a morte, cadde accanto al figlio…

Vela entrò nella città dall’altra parte insieme con il riparto dei “frati”. Furono loro a trovare i corpi del nonno e del padre.

3

Pedro si stava preparando al viaggio: era arrivato il tempo di partire per l’Italia; la lotta non era ancora finita. Il ragazzo aveva un po’ di timore a lasciare la casa.

— ­‐ Perché non posso rimanere? — domandava — Calatrava è liberata, perché bisogna ancora preparare i militari in altri paesi?

— ­‐ Prendere una città è più facile che tenerla! — gli spiegava ragionevalmente il fratello — Il re non ha forza per difenderla. Hai visto, è stato costretto a dare Calatrava ai templari, ma neanche loro possono tenere qui un grande riparto perché il loro primo dovere è nella Terra Santa. E i Mori sono ancora molto forti. Dio voglia che i templari resistano almeno dieci anni, fino a quando voi sarete cresciuti. Poiché quasi tutti i vostri padri, nonni e fratelli maggiori sono caduti in battaglia, cosa succederebbe se i templari partissero?

— ­‐ E come mai tu resti?

— ­‐ A chi affidare la mamma e la nonna? Ed è, inoltre, necessario preparare il vostro ritorno. Non tutto è così semplice…

Il discorso con la nonna era molto più difficile. La perdita del marito e del figlio l’aveva impietrita. La nonna disse:

— ­‐ Devi. Questo è tutto. Tutti i tuoi antenati sono stati militari, lo sarai anche tu. È un lavoro pericoloso, conduce alla morte. Per soppravvivere e vincere, o solamente vincere, bisogna essere buon militare. Perciò vai in Italia per diventare buon militare.

— ­‐ Ma se io non volessi fare il militare? Se volessi fare qualcos’altro?

— ­‐ E che cosa? Piantare i fiori? Sarà possibile farlo dopo la guerra.

— ­‐ E quando finirà la guerra?

— ­‐ Boh, Dio voglia che i tuoi pronipoti possano vederlo… Ma adesso bisogna essere buon militare. Vedi, persino i monaci partecipano alla lotta, anche se potrebbero passare questo brutto momento dietro le mura del monastero.

— ­‐

La mamma non diceva nulla a Pedro, lo stringeva solamente, abbracciandolo e cercando di non piangere. All’ultimo momento disse:

— ­‐ Meglio che tu vada, almeno per te il mio cuore non soffrirà.

4

Pedro sta per tornare, col suo riparto, in patria. Suo fratello Vela è venuto a prenderli e li mette al corrente di ciò che li aspetta:

— ­‐ I templari non possono più difendere Calatrava, devono conservare le forze e prepararsi alla nuova crociata. Il re Sancho III si è immischiato nella guerra contro Navarra e Calatrava non gli interessa. Dobbiamo sostituire noi i templari.

— ­‐ “Noi” chi?

— ­‐ Tu sai che i templari sono un Ordine monastico militare. Non vogliono lasciare la città ai vassalli del re perché questi sono obbligati a combattere là dove lui ordina e re Sancho adesso è turbato solo da Navarra. Dunque servono uomini indipendenti dal re.

— ­‐ E noi siamo indipendenti?

— ­‐ Insomma sì. Vivete nei monasteri perciò si può dire che siete in un certo senso monaci. E siete cavalieri. Quasi come i templari.

— ­‐ Però essi hanno un Ordine proprio! E noi? Ti chiedo ancora una volta: noi chi siamo?

— ­‐ Siete Calatrava. Avrete anche voi il vostro Ordine, aspetta e vedrai.

Partono da Troia a Napoli di notte, per imbarcarsi al mattino. Pedro, voltandosi, scorge, sulla cima di una delle montagne, una corona d’oro appesa al cielo nero. Dapprima si stupisce, poi, guardando attentamente, capisce che sono le luci di Vibinum, città dove suo nonno aveva promesso di tornare.

A Pedro sembra che il loro viaggio assomigli alla nascita di un fiume: i piccoli riparti si incontrano, confluiscono e procedono insieme, incorporando via via altri nuovi “riparti-­‐ ruscelli” e diventando un fiume sempre più ricco d’acqua. Un altro “fiume” proviene dalla Francia, alimentato da “ruscelli” più piccoli affluenti da altri paesi, alcuni dei quali molto lontani.

5

Ai riparti è stato ordinato di fermarsi lontano da Calaat-­‐Rava per non attirare l’attenzione. Pedro non capisce come mai. Vela spiega:

— ­‐ Non conviene far vedere al re Sancho che i templari non vogliono lasciargli la città. Potrebbe sentirlo come offesa e sarebbero guai. Non ci bastano i Mori come nemici, serve anche un conflitto con il re?!

— ­‐ Cosa fare?

— ­‐ Vedrai. Importante è trovarsi al momento giusto nel posto giusto.

Pedro comincia a osservare gli avvenimenti con interesse: ecco, i templari rifiutano di difendere la città; ecco, il re torna da Navarra e cerca qualcuno a cui affidare Calaat-­‐Rava. Ma tutti rifiutano e, in fondo, non c’è da stupirsi: se un Ordine così potente come i templari non può difendere la fortezza, cosa dire dei singoli signori locali?

— ­‐ Davvero Calaat-­‐Rava non serve a nessuno? — Pedro domanda al fratello Vela.

— ­‐ A qualcuno serve certamente ma è stato possibile convincerli a non esporsi.

— ­‐ E come hanno potuto convincerli?

— ­‐ Spiegando loro che gli Ordini sanno essere grati. A differenza di alcuni re…

Nel giorno del ritorno del re Sancho a Navarra, nel campo dei cavalieri accade una cosa strana. La mattina presto arrivano due monaci. Entrano nella tenda di Vela che ordina di non disturbare nè lui, nè i suoi ospiti, ma permette a Pedro di essere presente alla conversazione.

Uno dei monaci è Raimondo Serrat, l’abate del monastero di Fitero, presso Navarra, dove il re sta conducendo la guerra. Il secondo è frate Diego Velasquez.

— ­‐ Siete pronti? — chiede l’abate.

— ­‐ Sì, e voi?

— ­‐ Anche noi.

— ­‐ Come pensate di convincere il re?

— ­‐ Frate Diego è non solo ex cavaliere, ma anche amico d’infanzia del re Sancho. A lui il re crederà.

— ­‐ Allora, avanti!

E così è stato.

Al re conviene dare la città ai frati ma ad una condizione: prima devono dimostrare che sono capaci di difendere Calaat-­‐Rava.

Ora tocca ai cavalieri.

In pochi giorni (tanti, quanti servono per levare le tende e raggiungere la città) sotto le mura di Calaat-­‐Rava si riuniscono quasi ventimila giovani cavalieri, ben preparati e armati, in maggior parte provenienti dalla Francia e dall’Italia. Dopo sei mesi il re sottoscrive la donazione della città “a Dio, a Santa Maria, all’abate Serrat e ai suoi frati”…

6

— ­‐ Adesso finalmente si può realizzare la promessa del nonno — Vela dice a Pedro. — Lo ricordi ancora?

— ­‐ Ma Calaat-­‐Rava non solo è liberata, ma è anche indipendente! Davvero esisteva un’altra promessa?

— ­‐ Sì. Fondare presso la città, sulla riva del fiume, il santuario della Madonna di Valverde.

— ­‐ Valverde? E dove si trova?

— ­‐ Vicino al purgatorio.

Vela racconta al fratello la storia del nonno: della bellissima Miriam, di Abdulla, della donna con il bambino, della valle verde del limbo…

— ­‐ E la nonna? Lui non l’amava proprio?

— ­‐ All’inizio no. Cercava una madre per i suoi figli, una ragazza forte e intelligente, capace di capire e di assecondare lo scopo della sua vita, il suo servizio alla Madonna della valle verde. E trovò nostra nonna.

— ­‐ Ma lei sapeva..?

— ­‐ Sapeva. Il nonno voleva che lei lo prendesse così com’era, non deludendo le sue speranze e non fingendo. E lei lo prese.

— ­‐ Sembra che lei lo amasse molto…

— ­‐ Sai, anche lui l’amava, non come amava Miriam, forse molto più profondamente. Di Miriam era innamorato, ma l’amore è tutt’altra cosa…

I fratelli trovano quel luogo riposto presso il fiume; vi costruiscono il santuario; vi posano la statua della Madonna bruna con gli occhi neri. Infine dedicano il santuario a Dio, a Santa Maria e all’Ordine di Calatrava.

Capitolo IV

Don Enrico

L’anno 1208

1

Questa morte assurda confuse tutti definitivamente. Che cosa insensata, morire per mano del fidanzato rifiutato dalla figlia! E proprio nella famiglia reale! Un amore infelice? Come se questo potesse accadere alle principesse! Enrico scuoteva la testa, incredulo. Ora bisognava prendere in fretta delle decisioni per risolvere la situazione in una terra come la

Puglia, così importante per lui, e non solo. Per questo si diresse subito a Messina, per condurre delle trattative con un ragazzino di 14 anni!

Si strofinò il braccio malato, che si faceva sentire con l’umidità. Enrico, figlio tardivo di Pedro Guevara, era nato con un braccio e una gamba semiparalizzati, e non poteva neanche pensare di diventare soldato in queste condizioni. Da bambino questo lo faceva molto soffrire, e con lui soffriva suo padre. In seguito trovò la sua strada. Non potendo praticamente allontanarsi da casa, da ragazzo era costretto ad assistere agli incontri e ai colloqui degli adulti. Spesso non ne comprendeva il significato, ma era interessante osservare le espressioni del volto, le intonazioni, le pose… Col tempo acquisì un grande spirito di osservazione, e la capacità di comprendere ciò che succedeva da mezze frasi, dai gesti, perfino dagli sguardi, cogliendo le posizioni degli interlocutori, i loro interessi e le loro intenzioni. Il padre comprese che unendo queste doti con la mentalità strategica tipica di tutti i Guevara, il ragazzo poteva diventare un eccellente diplomatico. Ed egli lo divenne, anche se, al momento, soltanto nel ruolo di consigliere.

Va detto che negli ultimi 20 anni la Germania era stata perseguitata dalle morti che si succedevano senza interruzione. Nel 1190 era annegato Federico Barbarossa, padre di Filippo di Svevia; un anno dopo, durante una crociata, scomparve uno dei fratelli maggiori di Filippo, Federico VI, duca di Svevia. Allora erano ancora vivi gli altri fratelli maggiori, Enrico, Corrado e Ottone, ma nessuno di loro aveva figli. Quindi morirono Corrado e Ottone, e infine anche Filippo…

Enrico si mise a riflettere sul destino di Filippo, che era stato quasi vescovo, quasi imperatore e a volte re… Il più piccolo dei figli del Barbarossa sapeva fin dall’infanzia che sarebbe diventato sacerdote, e non avrebbe avuto altra prospettiva. Egli voleva diventare un buon pastore, studiava con impegno ed era in generale un ragazzo modello. Filippo aveva 13 anni quando il padre — come presentendo la propria imminente scomparsa — organizzò la sua elezione a vescovo. In quell’anno annegò il Barbarossa, e il nuovo vescovo nominato non fu mai consacrato…

Enrico cercava di immaginarsi le sue reazioni.

Il ragazzo provava fin dall’inizio un senso come di condanna? In un modo o nell’altro, la carriera ecclesiastica era stata decisa preventivamente dal padre.

E in seguito, aveva provato un senso di liberazione? Certo, era già stato eletto, ma il sacramento non si era ancora compiuto… A giudicare dal fatto che aveva immediatamente rifiutato la propria dignità clericale, egli sembrava contento di aver ingannato il fato…

O era stato il Signore a correggere i disegni dell’imperatore?

Comunque, suo fratello, l’imperatore Enrico, ottenne che Filippo potesse tornare allo stato laicale. Evidentemente non era guidato soltanto dall’amore fraterno, ma anche dalla spiacevole circostanza che nessuno dei fratelli avesse avuto figli, tanto più che uno di loro, Ottone, era parso adatto a occuparsi di qualunque cosa che non fosse il governo. In un tempo così torbido e sanguinario, conveniva tenere il proprio successore direttamente sotto controllo… E di nuovo Nostro Signore s’immischiò nei progetti umani: soltanto un anno dopo a Enrico nacque un erede, Federico! Enrico ebbe sinceramente compassione di Filippo. Non c’era modo di tornare indietro: sulla cattedra episcopale sedeva già un’altra persona e perfino tornare al sacerdozio risultava ora difficile… Naturalmente, il fratello comprendeva il turbamento del giovane Filippo, che a quel tempo aveva solo 17 anni. Si può anche dire già 17, se pensiamo che ora egli non sapeva quale sarebbe stato il suo destino. L’imperatore Enrico cercava di consolare Filippo, e appena ebbe conquistato, nel 1194, il regno di Sicilia, lo donò come feudo all’ex quasi-­‐vescovo di Toscana. E di nuovo la provvidenza divina intervenne: un anno dopo morì lo zio Corrado, e Filippo ricevette i suoi possedimenti, diventando duca di Svevia. Enrico sorrise di fronte alla pietra angolare di tutto l’intrigo: se la Toscana fosse rimasta nelle mani di Filippo, oggi molti problemi si sarebbero presentati sotto tutt’altra luce.

In generale, in tutta questa storia il regno di Sicilia svolse un ruolo quasi mistico. Proprio là nacque e trascorse i suoi primi anni Federico, il figlio ed erede di Enrico. Quando era ancora margravio di Toscana, Filippo si era fidanzato con la vedova del principe Ruggero di Sicilia, duca di Puglia. Sarebbe potuto essere un matrimonio con uno scopo a lungo termine… ma la festa ebbe luogo due anni dopo, quando Filippo era già in Svevia. E quattro mesi e tre giorni dopo morì l’imperatore Enrico… In quel momento Filippo si trovava proprio in Italia, in quanto il fratello gli aveva assegnato il compito di prendere suo figlio e portarlo in Germania. L’imperatrice Costanza, ormai vedova, si opponeva categoricamente a questa prospettiva.

— ­‐ Tu sei una brava persona, a te io credo — ella disse a Filippo — ma io conosco bene i nostri notabili. Essi non riconoscerebbero come re un bambino di tre anni, per di più nato fuori dalla Germania! Comincerebbero le liti, i conflitti… Eh no, noi resteremo qui, e io cercherò di assicurare a lui almeno la corona siciliana! Tu invece raduna i tuoi compatrioti e ritorna in patria, cerca di difendere i diritti di tuo nipote, mentre io aspetterò e pregherò, per te e per lui.

Ella così fece, e Filippo raggiunse la Germania con grande difficoltà. Là egli comprese presto che avrebbe fatto molta fatica a difendere i diritti del nipote, soprattutto in mancanza della regina e dell’erede al trono. Se almeno fosse stato nominato suo tutore! L’unica soluzione che gli sembrava ragionevole era quella di assumere egli stesso la corona.

Il 6 marzo 1198 Filippo fu eletto re di Germania, e il 6 settembre venne incoronato a Magonza. Egli cercò di convincere Costanza (e se stesso) che era soltanto una situazione provvisoria, che non appena Federico fosse cresciuto gli avrebbe ceduto il trono; ma la vedova non gli credette. Federico divenne re di Sicilia due settimane dopo l’incoronazione di Filippo.

Tuttavia, gli oppositori incolparono Filippo di aver trasgredito al giuramento fatto al proprio nipote, e presentarono il loro candidato. Si trattava di Ottone di Braunschweig. La madre di Ottone era la principessa inglese Matilde. Egli stesso era stato allevato alla corte inglese, dove aveva vissuto dall’età di otto anni; suo zio era il re d’Inghilterra Riccardo I Cuor di Leone. Gli oppositori di Filippo scelsero Ottone come re contando proprio sull’appoggio dello zio. Filippo chiese l’aiuto del re di Francia, e cominciò un conflitto decennale… Sarebbe stato ancora niente, se non si fosse immischiata una terza controparte: quell’anno morì Costanza, che aveva nominato il papa Innocenzo tutore di Federico. Egli all’inizio non intervenne, ma Filippo se la vide brutta. Di nuovo la morte portò il suo contributo: morì re Riccardo, e gli inglesi avevano altro da fare che appoggiare Ottone. Sembrava la fine delle lotte intestine, ma improvvisamente prese l’iniziativa Innocenzo, schierandosi dalla parte di Ottone. I rappresentanti di Filippo dissero al papa:

— ­‐ Santità, voi siete il tutore di Federico, il legittimo erede al trono, e Filippo è suo zio. Egli non farà torti al nipote!

— ­‐ Ammettiamo che non faccia torti al nipote, e a me che ne viene?

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